Siamo stati colpiti come un pugno in faccia dalla notizia della morte di Giacomo, i pensieri sono ai familiari, ad Andrea e ai momenti passati assieme. Un insieme di racconti per ricordarlo.
Marcello Cominetti ven 23 febbraio 2018
La prima volta che ho sentito nominare Degas ho pensato fosse un artista sardo. Questo per dire come certe assonanze mi si associno facilmente a una terra in cui ho vissuto molti anni della mia vita.
I miei amici alpinisti sardi Nicola Lanzetta e Giacomo Deiana pochi anni fa volevano scalare il Fitz Roy, una cima difficile che si trova nell’estremo Sud del mondo, in Patagonia.
Avevano scelto la via Affanasieff per farlo: un itinerario complicato. Nell’approccio si erano imbattuti in un cadavere decapitato dal tempo, si trattava dell’americano Chad Kellog che aveva perduto la vita pochi anni prima su un’altra via e là era rimasto, anche per volere della famiglia.
Due sardi, per dare sepoltura a un “collega”, se trovano delle pietre fanno un nuraghe, e così è stato.
Nicola è un uomo navigato dalla vita che conduce. Prima subacqueo di profondità – quando mi raccontava dei suoi 30 giorni consecutivi in camera iperbarica capivo che per lui l’alpinismo poteva rappresentare un’attività rilassante – poi pescatore di corallo. Sempre in un mare selvaggio, profondo e rude. Il suo maglione blu e la pelle della sua faccia parlano da sole. È figlio di un alpinista lecchese e di madre oristanese, ma è uno dei più sardi che conosca!
Giacomo da Sassari da quell’esperienza del cadavere ai piedi del Fitz Roy ne uscì provato. Era giovanissimo e alle prime emozioni forti in montagna e quindi della vita. La sua carriera alpinistica, però, è partita verso l’alto come una meteora. Nonostante la velocità di questa traiettoria, Giacomo era un tipo riflessivo e molto prudente. Nelle sue stagioni patagoniche sapeva trovare il momento per l’azione pura in montagna e quello per la vita di fondovalle, senza estremi e con molta semplicità. La semplicità cui mi riferisco è quella tipica delle persone intelligenti.
Tra amore e lavori disparati, Giacomo ha trovato il posto per allenarsi e ottenere lusinghieri risultati in montagna e ha deciso di diventare Guida Alpina. Per un sardo non è facile. Sull’isola non ci sono il ghiaccio e la neve e per superare gli esami bisogna essere abili tanto sulla roccia, che sulla sua bella isola abbonda, quanto su tutti gli altri terreni, che in Sardegna non esistono.
Trasferirsi sulle Alpi per un periodo è giocoforza e Giacomo lo ha fatto con sua moglie Andrea, colombiana conosciuta in Patagonia sposata da pochissimo. Me lo ha raccontato a casa mia, l’ultima volta che l’ho visto, pochi giorni fa. Pe diventare Guida Alpina serve imparare a sciare e a prendere dimestichezza con la neve e il ghiaccio, che Giacomo, tuttavia, conosce dalle lunghe trasferte patagoniche. Andrea, invece, nelle Alpi si è imbattuta nel freddo dei suoi abitanti, oltre di quello della valla dove si sono trasferiti che ironicamente si chiama Val di Sole. Conosco i latini e i mediterranei: gente solare, espansiva che ai rapporti umani danno importanza immensa. E conosco i valligiani: gente chiusa e diffidente che sa aprirsi solo dopo tanto che ti conosce. Io stesso sono un mediterraneo che vive da decenni sulle Alpi. Posso dirlo.
Giacomo è intelligente, forte e talentuoso nelle attività fisiche. È cresciuto in campagna e con la natura ha un rapporto diretto, la conosce e non fa fatica ad adattarsi. Della natura fanno parte anche le persone e Giacomo è amato da tutti quelli che lo conoscono, è uno modesto, forte e sa ascoltare. Caratteristiche che dette così sembrano comuni, ma in verità sono doti rarissime. E lui ce le ha tutte.
Il 21 febbraio era Cogne, in Valle d’Aosta con due amici comuni: Luca Bianco, Guida Alpina, e Filippo Mosca che sta facendo i corsi per diventarlo. Hanno iniziato a salire una cascata di ghiaccio, ed è stato Giacomo ad andare da capocordata perché, il giorno prima su un’altra cascata, Filippo si era già cimentato nella parte più difficile: quel giorno toccava a lui iniziare la ripida colonna. Giacomo, avvitati due chiodi, proseguiva sicuro, ma appena messo il terzo e alzatosi di poco, la colonna si è spezzata portandoselo giù fino a terra. Il ghiaccio pesa quasi come la roccia e restarci sotto è letale. Giacomo, infatti, è morto praticamente sul colpo davanti ai suoi amici e compagni di cordata con cui aveva diviso momenti significativi della sua vita e del suo alpinismo.
Posso orgogliosamente dire di avere condiviso molti di quei momenti anch’io con Giacomo e con Francesco Salvaterra, la nostra squadra patagonica di alpinismo e vita.
Ieri c’eravamo tutti meno Giacomo, che la burocrazia di forza maggiore aveva trattenuto in obitorio, e soprattutto c’erano i suoi genitori e Andrea.
Io tra tutti loro ero l’unico padre perché i genitori di Giacomo hanno perso il loro unico figlio il giorno prima e gli altri sono ancora giovani e comunque figli non ne hanno. Nella tristezza estrema dei momenti io sentivo quella del genitore più forte di quella dell’amico. Giacomo era un amico, ma anche un figlio, aveva la stessa età di mio figlio maggiore.
Il dolore dei suoi genitori mi attraversa ancora il cuore e so che lo farà ancora per molto.
Il massimo della pena è stato loro inflitto dal destino, e io lo avverto chiaramente.
Ritrovarci a Pont San Martin in un’anonima trattoria che non saprei neppure più ritrovare se ci tornassi, invece che a El Chaltén, mi ha fatto sentire piacevolmente umano circondato da umani, ma esageratamente triste per la perdita di un amico unico, come del resto lo sono tutti i pochi che ho, e se la vita continua vorrei lo facesse in silenzio, per non distrarmi dai miei pensieri.
Franz Salvaterra sab 24 febbraio 2018
Giacomo Deiana era uno dei miei migliori amici, parlare di lui non è facile, quello che mi viene in mente è un accavallarsi di ricordi ed emozioni, a cui cercherò di dare un senso e un filo logico.
Io e Giacomo ci siamo conosciuti in Patagonia, a El Chaltèn, e per due stagioni patagoniche (due mesi del 2015 e altri due nel 2016) abbiamo vissuto a stretto contatto, condividendo obbiettivi alpinistici, amicizie e alloggio: una specie di roulotte da 3 dove vivevamo ammassati in 5, con Marcello Cominetti, Luca Bianco, Nicola Lanzetta, Filippo Mosca e altri. Successivamente, abbiamo passato del tempo assieme in Sardegna, l’isola che amava e che ha sempre considerato come “base”, e sulle Alpi. Giacomo era ricco di amici perché sapeva ascoltare: una di quelle rare persone a un tempo forte e sensibile. Di caratteri decisamente diversi, io e lui, condividevamo quell’inquietudine che spesso alterna momenti di entusiasmo a momenti di insoddisfazione legati a una voglia di “fare” sempre di più. Fortunatamente le nostre rispettive innamorate avevano già limato via gli aspetti negativi di questo carattere aiutandoci a definire gli obbiettivi e a goderci il presente.
Alla sua prima esperienza di scalata sulle Alpi, a dicembre dell’anno scorso, in tre giorni consecutivi con vari compagni, Giacomo ha messo a segno degli exploit che fanno capire di che pasta era fatto. Ha ripetuto con gli scarponi una via di V grado coperta di neve, la Kiene sul Castelletto inferiore, nelle dolomiti di Brenta. Il giorno successivo con Filippo Mosca ha fatto la prima ripetizione di una difficile via tradizionale nelle gole del Limarò, la via degli aspiranti, che a oggi è stata ripetuta da Guide Alpine e forti scalatori, ma Giacomo è l’unico ad aver risolto il tiro chiave di 7a “a vista”. Per non farsi mancare nulla, il terzo giorno ha aperto una via nuova di misto nel gruppo di Presanella, la Diretta alla Punta Teresa.
Giacomo e Filippo Mosca su Castelletto Inferiore, e Giacomo in apertura sulla punta Teresa, in Presanella.
Insomma Giacomo aveva tutti i numeri giusti sia dal punto di vista tecnico che umano e l’ho sempre spronato nel suo sogno degli ultimi tempi: diventare Guida Alpina (e che guida sarebbe stato!).
Per farlo però, doveva affinare l’esperienza sul ghiaccio accumulata in Patagonia (aveva già scalato il Cerro Torre), imparare a padroneggiare gli sci e completare il “curriculum” necessario. Per questo aveva deciso di passare l’inverno a San Lorenzo in Banale con sua moglie Andrea che lo ha seguito assecondando la sua passione.
Ora, quel che è successo lo racconta bene Marcello, Giacomo non c’è più. -per mia curiosità personale ho voluto farmi un’idea chiara delle dinamiche dell’incidente e delle valutazioni che sono state fatte, di solito in montagna dietro ogni incidente c’è sempre una causa e non ha senso tirare in balle il fato, questa volta però le condizioni erano veramente difficili da valutare e tendenti al meglio: Daniele Fiorelli, istruttore delle Guide Alpine Lombardo aveva appena scalato lo stesso tratto di cascata con due allievi non più tardi di 40 minuti prima. Alle mie domande ha risposto che in tutta la sua esperienza non si sarebbe mai immaginato un crollo della candela e lui come molti altri avevano giudicato la struttura sicura. Posto sbagliato nel momento sbagliato e ben pochi indizi a cui adeguarsi durante una scalata, una cosa che fa sentire vulnerabili.-
Vorrei contribuire a ricordarlo con un racconto scritto anni fa e mai pubblicato di quella che è stata una delle scalate più difficili della mia vita e forse la più bella, nella consapevolezza che anche se questo non aiuta a sopportarne la mancanza, Giacomo se ne è andato seguendo il suo sogno, facendo quello che lo faceva stare bene.
Franz Salvaterra gennaio 2015
-Torre Standhard, prima salita integrale di “Motivaciones mixtas”-
“Per la piccozza c’era un aggancio ma non capivo dove mettere i piedi, il ghiaccio lo avevate tolto tutto voi, non sapevo più cosa fare così ho chiuso il braccio”. Con queste parole Giacomo ci spiega come ha fatto a salire l’ultimo tiro di “Exocet” prima del pendio finale che porta al fungo e alla vetta della torre Standhard. È la seconda volta che prende in mano delle piccozze, ma per fortuna è un rocciatore capace di fare tre trazioni su un braccio solo altrimenti se la sarebbe vista grigia sul ghiaccio marcio e strapiombante della cascata che abbiamo salito: un sogno per molti ghiacciatori al mondo.
Ci troviamo in Patagonia, e siamo in tre in questa cordata: Luca Bianco, Guida Alpina cuneese, navigato alpinista di quelli che trasmettono serenità. Giacomo Deiana, sardo che già lo scorso anno ha conosciuto queste montagne e come tanti ne è rimasto affascinato, e il sottoscritto: anch’io faccio la Guida e mettendo assieme i vari viaggi ho passato almeno un paio di anni girovagando su queste montagne.
La nostra avventura verticale parte come tutte le scalate patagoniche: con una lunga camminata orizzontale. Anzi, a dire il vero ancora prima, nasce di fronte ad una birra seduti nel nostro “trailer” in affitto dalla gentile Natalia, mentre, con la guida alpinistica “Patagonia Vertical” alla mano, valutiamo le varie possibilità assieme a Korra. In effetti è proprio Corrado Pesce a metterci la pulce nell’orecchio per questa ambiziosa combinazione di itinerari. L’obbiettivo è la quarta sorella a destra del Cerro Torre, la torre Standhard. Tutto va pianificato in partenza, la scelta del progetto va incastrata con le previsioni meteo, i materiali, la tecnica di progressione e il resto della logistica. Scalare vie difficili è anche questo, pianificazione a casa e improvvisazione sul campo. Sono previsti tre giorni di bel tempo con un po’ di vento, decidiamo di scalare la prima parte della parete lunga 700m dal tentativo Chaverri-Plaza fino alla cengia centrale e di connetterci con Exocet nella parte alta.
Un po’ di storia: nel 1993 Pepe Chaverri (spagnolo) e Teo Plaza (argentino) portarono avanti più tentativi in stile alpino su una linea nel pilastro centrale della Standhard, alcuni con Lorenzo Ortiz. Nell’ultimo tentativo, senza Ortiz, i due riuscirono a salire quasi fino alla fine delle difficoltà, ma una scarica di ghiaccio ruppe un femore a Plaza a meno di cento metri dalla vetta. Dopo una lunga giornata e l’intera notte di corde doppie i due riuscirono a raggiungere il ghiacciaio e anche grazie all’aiuto di Ermanno Salvaterra, che decise di andargli incontro insospettito dal ritardo, Plaza si salvò. Nel 2006 Stephanie Davis e Dean Potter sono saliti da Exocet fin sotto la headwall finale e hanno seguito le orme di Chaverri e Plaza concludendo la scalata fino in vetta. La parte bassa del pilastro però non era mai stata salita fino in vetta.
Il primo giorno partiamo nel pomeriggio sotto una leggera pioggerella, camminiamo fino a poco dopo la tirolina del lago Torre e ci accampiamo in una foresta vicino a un grande masso, che battezziamo “campo giungla”. Il giorno dopo ci portiamo al campo Niponino, sotto al Mocho, e risaliamo il ghiacciaio fino alla base del nostro pilastro. In tutto una decina di ore di cammino, montata la tendina in un avvallamento sul ghiacciaio ci godiamo il resto del pomeriggio dormicchiando e recuperando le forze.
La mattina del 30 dicembre la sveglia suona alle 4.30: colazione con biscotti e caffelatte, smontiamo il campo e lasciato uno zaino con la tenda alla base iniziamo a scalare sui primi ripidi pendii di neve ghiacciata. Il sole arriva prestissimo e ci trova impegnati su difficile terreno misto: una goulotte sottile con poco ghiaccio dove non ci si protegge facilmente e la scalata diventa una corsa contro il tempo perché con il repentino rialzo termico la neve diventa sempre più inconsistente alle piccozze e siamo in linea con possibili scariche. La relazione originale parla di 80°e A1, riusciamo a salire in libera fino all’M6+, raggiungendo la base di un grande diedro.
Ora abbiamo tutto il tempo per tirare il fiato, il resto del pilastro è una scalata di roccia al riparo dai pericoli oggettivi. Mangiamo qualcosa, poi passa da primo Luca su fessure verticali dove alterna libera e artificiale, io e Giacomo seguiamo con le maniglie jumar o scalando e tiro dopo tiro recuperiamo il saccone con il materiale da bivacco e da ghiaccio. Su duecentocinquanta metri di fessure l’unico segno di passaggio che troviamo è uno spit su una sosta. L’esposizione è assoluta e impressionante, la parete è verticale o strapiombante e tutte le soste sono appese, per stare un po’ più comodi usiamo il saccone come terrazzino per puntare i piedi. Verso le cinque di pomeriggio il pilastro finalmente si appoggia, Giacomo sale con maestria due tiri sul 6a con fessure ghiacciate e granito friabile che ci portano al nevaio centrale. Di nuovo cambio di ruoli e di materiali: ramponi ai piedi una sezione facile a 60° porta a cinquanta metri di goulotte a 80°, non sarebbe difficile, ma la lunga giornata comincia a farsi sentire e l’attenzione è ai massimi livelli per non commettere errori. Poco dopo arriva il buio, d’improvviso. Di ripiani neanche l’ombra quindi decidiamo che se proprio dobbiamo intagliare un gradino nel ghiaccio tanto vale farlo sotto la via che ci aspetta domani. Continuiamo quindi per pendii ripidi fino all’attacco di Exocet. Il posto che scegliamo come camera da letto è ridicolo, un fazzoletto di neve ghiacciata a 60 gradi sotto a una parete di roccia verticale. Non c’è altro e siamo “hecho pomada” che in slang argentino significa stanchi morti, sono diciotto ore che scaliamo e ce lo facciamo andare bene. Mentre Giacomo e Luca mulinano le piccozze come ossessi per intagliare tre seggiole blu nel ghiaccio io mi metto al fornello e sciolgo dell’acqua per bere e per le buste di cibo liofilizzato. Giusto il tempo di mandare giù il boccone e ci infiliamo nel sacco a pelo con scarponi, imbrago e tutto, le gambe a penzoloni.
Mi ritrovo finalmente nel sacco a pelo e per la prima volta durante la giornata non ho nulla da fare, mi guardo attorno un attimo, la luna ha appena fatto capolino da sopra il Fitz e il cielo è “lleno de estrellas”. Una frana scende rumorosa dal versante ovest del Fitz Roy, si capisce che è li per via delle scintille che balenano nel buio. Un attimo prima di addormentarmi dico ai miei amici che non c’è altro posto dove vorrei essere, non mi risponde nessuno, dormono. Due ore dopo, alle tre e trenta suona la sveglia. Di malavoglia ci prepariamo e partiamo, già sopra al primo tiro ci si vede bene e con le prime luci entriamo nel caratteristico budello ghiacciato della via Exocet. Si tratta di un diedro verticale con una striscia di ghiaccio al centro, talvolta così sottile che c’è a malapena il posto per piantare le piccozze. Il primo sale cercando di far cadere meno ghiaccio possibile e gli altri in sosta restano nascosti al riparo aleatorio degli zaini messi sopra la testa. Gli ultimi due tiri prima del colle sono critici: il sole ha già raggiunto la parte alta è da un po’ cadono in continuazione pezzi di ghiaccio, in breve invece di essere “su” una cascata ci troviamo “sotto” uno scorcio di acqua che ci inzuppa le braccia e il busto passando dai polsini della giacca. Su un tiro veramente verticale di ghiaccio cotto le viti spariscono nella superficie bianca solo con la pressione del palmo. In qualunque altro contesto avrei voluto scappare da lì, ma la cima è così vicina…e in ogni caso, non avrei saputo su cosa calarmi. Teniamo duro e arriviamo al colle, alla fine della cascata.
Affrontiamo un momento di stallo: siamo tutti ammaccati e bagnati fradici, strizziamo i piumini come dei panni usciti dalla bacinella e soffia un vento tagliente che ci fa tremare. Decidiamo di scendere abbandonando la vetta ma prima Giacomo e Luca devono fare quello che più gli ha occupato la mente nelle ultime ore: la cacca. Giacomo avendo i pantaloni a bretelle alte è da mezzogiorno del giorno prima che la tiene, e mentre io fumo una sigaretta a un paio di spanne di distanza (il posto non verticale era davvero poco) i miei amici si liberano le budella. Giacomo dice a Luca: “Ajo, non ho mai cagato di fronte a un altro uomo” e ci ridiamo su. Sembra che dopo questa parentesi, i miei amici siano rinati e anch’io dopo qualche minuto senza paura di morire, mi sento meglio: avanti verso la cima!
Vivere su queste montagne liberi e spensierati è un sogno che si avvera, un privilegio raro. Non si tratta solo di scalare, ci sono le emozioni, i panorami, le amicizie, le sensazioni e l’adrenalina che pompa nelle vene. Tornare alla quotidianità, al traffico, alla gente per strada, alla superficialità della vita dove le giornate a volte scivolano via senza lasciare tracce non è facile. La vera fortuna è quella di poter scegliere, e perlomeno ogni tanto avere la possibilità di vivere delle situazioni indimenticabili.
Superiamo un diedro non facile che ci lascia su un pendio di neve ai piedi del fungo, non è difficile e poco dopo ci abbracciamo in vetta alla Torre Standhard. È l’ultimo dell’anno 2015, il capodanno più bello di sempre.
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