Dopo due estati australi di assenza, per via del covid la prima e la nascita di Lisa a casa Salvaterra la seconda, si torna in Patagonia.
Si parte il 26 dicembre e il team è di quattro: Franz, Marcello, Alberto e Marquiño.
Marcello (Cominetti) rappresenta la memoria storica e la guida esperta con 33 viaggi in Patagonia a partire dal 1988. Amico, compagno di scalata e socio in affari di Franz da dieci anni. Lo scorso Novembre 2022 sono 30 anni dalla prima salita di Marcello con un cliente al Fitz Roy.
Alberto scala con Franz e Marcello da quasi tre anni, li ha contattatati fin da subito coltivando il sogno-incubo di salire il Cerro Torre e da allora hanno fatto un bel po’ di grandi classiche in giro per le Alpi. Alberto è un ottimo alpinista ben allenato, spesso si va in alternato e la cordata è più che affiatata.
Per scalare in Patagonia su vie impegnative (e lo sono praticamente tutte) è preferibile una cordata a tre. Nel massiccio di El Chaltén non esiste il soccorso come lo conosciamo sulle Alpi: i circa 200 soccorritori della comision de auxilio Fabio Stedile sono di grande aiuto ma effettuano soccorsi solamente alla base della pareti. Non ci sono elicotteri e l’unica chance di cavarsela in parete in caso di incidente è di arrangiarsi da soli per raggiungere la base. In tre oltre ad essere più sicuri, ci si spartisce meglio i carichi, che sono sempre tanti e ci si diverte di più.
Non avendo molto tempo a disposizione decidiamo di non fare dei depositi preventivi in montagna, ma di partire con tutto il materiale appresso e proprio per questo ingaggiamo un amico come portatore.
Marquiño è brasiliano di Sau Paulo ma vive a El Chaltèn da vent’anni. E’ un vero amante della Patagonia e dell’immergersi nella montagna, il suo entusiasmo è contagioso come la sua risata. E’ già stato in montagna con Franz e Marcello parecchie volte. Il suo soprannome è “chico perfurado”, anche se negli ultimi anni ha sempre meno buchi nelle scarpe, sarà per il fatto che è un ottimo assistente e non gli manca il lavoro.
Siamo partiti appena dopo Natale e abbiamo a disposizione 15 giorni a el Chaltèn. Non molti relazionati al famoso mal tempo, specie per un obiettivo come la via dei Ragni al Cerro Torre.
In realtà avere un obiettivo serve a poco perché ci si deve immediatamente adattare alle condizioni meteo e della montagna, se si vuole non restare fermi a guardare le nuvole e le previsioni. I cambi di programma sono all’ordine del giorno e quegli alpinisti poco elastici che pensano a piantare la bandiera sulla loro cima preferita sono i meno adatti a questi posti.
Prima di arrivare prendiamo informazioni: al momento, nonostante la stagione avanzata solo una cordata ha salito il Fitz Roy dalla Supercanaleta (a settembre) e nessuno il Torre. Il meteo è stato pessimo negli ultimi due mesi. Ce lo conferma Ermanno Salvaterra dopo il tentativo alla Egger.
Arriviamo di sera in un momento senza vento e con una luce bellissima, le montagne ci salutano subito ma non si fanno vedere per i giorni successivi.
Partiamo per provare la Guillamet, la più facile delle guglie che contornano il Fitz Roy, in una finestra di bel tempo che esiste solo se ci si vuole credere. Il vento ci accompagna costantemente. Abbiamo una tenda da quattro e tutti assieme passiamo la notte a Piedra Negra una zona dove ci si accampa in piccole piazzole riparate da muretti a secco. Il riparo è fittizio: non molti anni fa, in piena notte il vento distrusse la tenda con noi dentro e fummo costretti a ficcare i resti frettolosamente nello zaino per scappare a valle. Il giorno successivo saliamo l’infame pedrero che porta al passo Guillamet. Fa freddo e tira vento ma il versante est à abbastanza riparato. Scegliamo la via Guillot-Coquinot perché sembra quella in condizioni migliori, anche se ci si accorge subito che è tutto molto secco. L’inverno è stato scarso di precipitazioni e le temperature sempre più elevate per periodi lunghi non preservano neve e ghiaccio laddove in precedenza si trovavano per definizione. La via si fà ma non è facile come la ricordavamo: sono circa 10 tiri sui 70° e fino all’M5. In discesa anche se abbiamo tempo decidiamo di fermarci a dormire alla Piedra del Fraile. E’ un rifugetto tranquillo in un bel posto, un’isola di quiete riparata dalle piante di Lengas (faggi antartici) circondata dal vento.
Seguono un paio di giorni di ozio, dove andiamo al muro del Centro Andino a scalare sul boulder e a fare una sgambata di venti chilometri alla laguna Madre e Hija.
Il tempo continua a essere brutto e decidiamo di andare al Cerro Solo, un’ estetica montagna che assomiglia a un 4000 delle Alpi.
Questa volta ci arrangiamo perché Marquiño è a Gobernador Gregores per fare un corso di censimento di uccelli in estinzione e poi non serve molta attrezzatura, giusto ramponi, corda e una piccozza. E’ una salita su ghiacciaio con circa 15km di avvicinamento a cui seguono 1400m di dislivello. Dopo aver superato la tirolese della laguna Torre andiamo a dormire in un bosco riparato dal vento, il momento del “camping” è forse il più bello della giornata. E’ bello essere scomodi, avere un sasso puntato nella schiena, patire un po’ di freddo e mangiare alla buona. Una coppia di giovani tedeschi ci chiede, col cellulare in mano, se sappiamo il numero del soccorso alpino e rimangono stupiti quando gli rispondiamo che il cellulare lì non funziona e neppure il soccorso è un servizio così scontato.
Partiamo alle 3 di mattina e il vento ci martella fin da subito. Salendo al buio si verifica una situazione classica: sia Franz che Marcello hanno già fatto la cima e proprio per questo abbassano la guardia e sbagliano il sentiero. Si sale a istinto, i tedeschi che ci seguono fiduciosi si scoraggiano e fanno dietro front. Finiamo per imboccare il ghiacciaio molto più in basso, poco male, con le prime luci ci orientiamo e la variante ci permette di fare un percorso ad anello. La luce e l’atmosfera è molto bella, anche se avevamo paura di imbatterci nel cadavere di un Argentino precipitato anni fa e mai recuperato. La questione del recupero dei cadaveri (non dei feriti) è una delle discussioni che di questi tempi prende gran parte delle conversazioni in paese. Si, perché qui tutto, o quasi, si basa sul volontariato, in Patagonia di soldi da dedicare al soccorso degli alpinisti non ce ne sono. In queste terre estreme è comprensibile che chi mette a rischio la propria pellaccia per recuperare un corpo senza vita voglia essere pagato.
Ancora qualche giorno di riposo, poi si va a fare arrampicata sportiva nei dintorni. A un certo punto tutto il pueblo parla della ventana in arrivo. Sembra una vera finestra di 2-3 giorni di alta pressione e calma di vento.
Siamo a ridosso del volo di partenza ma abbiamo la possibilità di spostare i voli con un messaggio del telefono satellitare. Decidiamo di fare un tentativo al Torre. Questa stagione non ci ha ancora provato nessuno. Le condizioni dei ghiacciai non sono ottimali ma sono posti che conosciamo bene e sappiamo come dribblare certi ostacoli, anche se sicuramente non tutti, ma questa è l’avventura. Cosa che qui esiste ancora, eccome.
Di fronte alla casetta che abbiamo preso in affitto da Natalia c’è un praticello. Spargiamo tutto il materiale e cerchiamo di fare ordine, portando l’indispensabile. Il cibo è sempre la cosa più pesante, dobbiamo portarci da mangiare per 7 giorni e per 5 persone, Franz mangia per due o diventa nervoso.
El Chaltèn- Laguna de los Catorce (8 ore di cammino)
Il caldo assolutamente anormale degli ultimi giorni ha gonfiato i fiumi e i torrenti, incontriamo dei gruppi di escursionisti intenzionati a fare la vuelta allo Hielo (Passo Marconi-Passo del Viento) che ritornano sui loro passi: non sono riusciti ad attraversare il rio Pollone, la prima delle difficoltà che si incontrano anche solo volendo passeggiare. Il Rio Pollone prende il nome dal paese natale di Padre Alberto Maria De Agostini, uno dei più importanti esploratori della Patagonia tutta. E’ un breve corso d’acqua che si origina dal ghiacciaio omonimo che sta alla base del versante nordest del Fitz Roy. Quando fa caldo, il rigagnolo si trasforma in poco tempo in una furia bianca d’acqua spumeggiante che minaccia di trascinare nel Lago Electrico poco distante chi cerca di guadarlo.
Ci prepariamo al peggio, ossia a un bagno quasi completo passando con una corda ma alla fine è più scena che altro: è sufficiente mettersi in mutande (o meglio senza) per passare guadando con l’acqua alla vita.
In passato al termine del lago Electrico si saliva sul ghiacciaio per raggiungere direttamente il passo Marconi. Ora il ritiro incredibile del ghiaccio ha reso impossibile la salita diretta e occorre attraversare il fiume con un cavo di acciaio per proseguire facendo un largo giro che attraversa cenge e vallette di rocce montonate e instabili, come se il ghiaccio si fosse ritirato pochi giorni prima. Nei pressi della laguna de Los Catorce la natura è veramente potente. E’ tutto ripido e si capisce al volo che i posti sicuri sono pochi. Enormi seraccate dominano la testata della valle e dalle fenditure tra ghiacciaio e roccia sgorgano rumorosamente fiumi in piena di acqua spumeggiante. Ci accampiamo poco prima di entrare sul ghiacciaio che si trova ben difeso da una serie di cascate d’acqua che vanno affrontate la mattina presto per trovarle meno impetuose. Di notte tira vento e piove, per fortuna non troppo: le nostre leggere tende monotelo non sono fatte per resistere a tanta acqua.
Laguna de los Catorce- Filo rosso al Circo de los Altares (10 ore di cammino)
In una mattinata plumbea ci portiamo fino al ghiaccio passando da una intricata rete di cenge e passaggi su placche di roccia montonata, qualche ometto, molto istinto e una corda fissa indicano il percorso.
In salita patiamo un forte vento contrario ma raggiunto il campo de Hielo, ai piedi del Cordon Marconi il vento cala sensibilmente. L’ampliarsi dell’orizzonte fa si che le correnti d’aria diminuiscano la loro pressione calando notevolmente la loro velocità. La vista fa fatica a riconoscere tutto quello che sta lì davanti. Dal Cerro Lautaro al Mariano Moreno si rincorrono riflessi e spazi immensi lungo i sistemi glaciali continentali più vasti del pianeta. E si vede!
Sul ghiacciaio si sfonda un po’, arriviamo in vista del Torre abbastanza cotti dalla marcia e dagli zaini pesanti. Per fortuna troviamo un isolotto di neve abbastanza riparato dove accamparci.
Facciamo dei muretti di blocchi di neve e pietre attorno alle tende per proteggerle dal vento.
Fatichiamo a riconoscere il luogo per come lo ricordavamo: il ghiacciaio è molto più basso, ghiaccio verde o sporco e seracchi ovunque al posto della neve.
Filo Rosso-tentativo alla Ragni e ritorno (8 ore di arrampicata)
Rolo Garibotti ci conferma via i-reach le previsioni: oggi ci sarà vento al mattino e un progressivo calo delle temperature. I due giorni successivi con meteo ottimo.
Il piano sarebbe di salire oggi fino all’Elmo per poi il secondo giorno tentare la cima e scendere, usando l’ultimo giorno di bel tempo per ritornare al passo Marconi e iniziare la discesa verso El Chaltén.
Partiamo alle 8, con calma per lasciar calare un po’ di vento. Ci accorgiamo subito che il rigelo è stato minimo, la neve si è appena indurita e continua a scorrere acqua sulle rocce.
Il pendio di neve che porta all’inizio della via dei Ragni non esiste: la neve ritirata ha lasciato delle placche lisce inscalabili. Quello che in un paio d’ore di cammino portava all’attacco delle prime difficoltà della via è diventato un percorso a ostacoli lungo e tortuoso.
Facciamo un giro più largo passando in traversata sotto a dei seracchi, non un posto dei più piacevoli. La neve diventa ghiaccio e tirate fuori le corde, saliamo 10 tiri lunghi su neve, ghiaccio e misto per arrivare dove di solito si arrivava persino con gli sci ai piedi, alla base del tiro di misto.
Questo tratto è molto più lungo del solito perché il pendio di neve finisce circa 100 metri più in basso, in più una cascata d’acqua consistente scorre nell’unico diedro dall’aria percorribile. E’ impossibile salire lungo la via tradizionale.
Ci fermiamo per fare il punto. Forse forzando un passaggio più sulla sinistra si riuscirebbe ad andare avanti ma è già mezzogiorno. Abbiamo impiegato più del doppio del previsto e queste condizioni secche e più difficili, unitamente alle temperature alte non ci convincono ad andare avanti.
Decidiamo in fretta perché il sole è in arrivo e con lui le possibili scariche di sassi che già punteggiavano i pendii appena saliti: si scende. I pendii nevosi poggiano su ripide placche di granito su cui si vede scorrere abbondante acqua attraverso fenditure sinistre. L’agonia dei ghiacciai è evidente ma soprattutto ci preme la nostra sicurezza. Non è facile per nessuno di noi rinunciare ma istinto e ponderatezza ci fanno decidere così.
In discesa evitiamo i seracchi calandoci per delle placche di roccia e torniamo alla tenda e a Marquiño che ci viene incontro preoccupato. Tornati a El Chaltén scopriamo che una cordata di americani passati dal col Standhard hanno provato la via il giorno dopo di noi salendo ancora meno per poi fare dietrofront.
Ci riposiamo per il resto della giornata godendoci il panorama incredibile con la colonna sonora dei seracchi che precipitano dal Domo Blanco e dal Cerro Rincon.
Filo Rosso-Rifugio Gorra Blanca
Per sfruttare il rigelo partiamo presto, alle 6 abbiamo già smontato il campo e cominciamo a camminare. La crosta superficiale gelata ci consente una camminata veloce e priva di guadi per evitare zone invase dall’acqua.
Decidiamo di spezzare il lungo rientro fermandoci al rifugio Garcia Soto al Gorra Blanca. E’ l’unico rifugio della zona, costruito dai cileni per presidiare il confine con l’Argentina, l’eterno rivale territoriale. Un vero lusso in questo ambiente selvaggio.
Abbiamo un sacco di cibo quindi ci abbandoniamo alle libagioni e al riposo. Reincontriamo la coppia di tedeschi conosciuti al Cerro Solo che si è unita ad un’altra coppia di connazionali più esperti con cui hanno salito il Gorra Blanca, una montagna possente dai versanti ricoperti da ghiacciai imponenti.
Rifugio Gorra Blanca- El Chaltén
La discesa scorre veloce, sappiamo dove passare ma non bisogna mai di abbassare la guardia: brevi arrampicate, guadi e passaggi esposti qua e là consigliano di tenere le orecchie alzate. Dopo una pizza alla Piedra del Fraile riusciamo a tornare al pueblo con un autostop rapido e fortunato.
Prepariamo i bagagli, salutiamo tutti e il giorno dopo di buon’ora saltiamo in corriera per il lungo viaggio di rientro.
Sembra che quest’anno il Torre sia una bella gatta da pelare, rinunciare non è mai facile ma una montagna del genere è raro che si conceda facilmente. Provarci finché non si riesce è l’unica tattica. E noi lo sappiamo bene perché di tentativi ne abbiamo fatti parecchi.
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